Sono salito a bordo del Johannesburg-Sant’Elena. Lo chiamano ‘il volo senza ritorno’: vi racconto perché
Raggiungere l’ultimo esilio di Napoleone non è una coas facile, volarci è una vera esperienza

L’isola di Sant’Elena è uno ‘scoglio’ di 12 chilometri per 10 sperduto nell’Oceano Atlantico meridionale, a quasi tremila chilometri dalle coste della Namibia.
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E’ famosa per essere stata l’ultimo esilio di Napoleone Bonaparte, che visse lì per sei anni e vi morì nel 1821.
E’ un Territorio d’Oltremare del Regno Unito che conta poco meno di 4mila abitanti e che fino al 2017 poteva essere raggiunto dalla terra ferma solo in nave, con un viaggio che (da e per Cape Town) durava la bellezza di sei giorni.
Sette anni fa, una striscia d’asfalto, un piazzale aeromobili e un piccolo terminal furono aperti nella parte orientale dell’isola.
Ed Airlink, quella che poi sarebbe divenuta la maggiore compagnia aerea sudafricana in seguito al crollo della storica compagnia di bandiera South African Airways, prese a volarci dal suo hub di Johannesburg usando i suoi Embraer ERJ-190, facendo uno scalo per rifornirsi di carburante a Walvis Bay, sulla costa della Namibia, nella tratta verso l’isola che di solito deve fronteggiare venti a prua.
Negli anni, grazie all’esperienza accumulata sulla tratta, ci sono giorni in cui lo scalo tecnico in Namibia viene saltato e il volo si trasforma in non-stop. Accade quando a bordo ci siano pochi passeggeri e/o quando i venti anziché essere in prua sono in coda, ‘spingendo’ l’aeroplano rendendo il volo più veloce e riducendo il consumo di carburante. Ma la decisione, se fare o meno lo scalo tecnico, viene presa solo quando l’aereo è già in volo. E comunicata ai passeggeri.
E’ una sfida alle condizioni climatiche talvolta estreme presenti sull’isola, con venti tali da rendere impossibili gli atterraggi, obbligando i voli a essere ritardati di ore o cancellati, oppure a fare dietro front a metà della tratta sull’Oceano Atlantico quando il vento traverso sulla pista, sotto i 55 nodi al momento della partenza da Joburg, super quel mark mentre l’aereo è in volo.
Come lo fu per Napoleone, anche per i voli di Airlink l’isola di Sant’Elena può essere definita una meta senza ritorno. Nel senso che, essendo la pista lunga appena 1.950 metri, i serbatori dell’ERJ non possono essere riempiti oltre un certo limite, perché altrimenti l’aereo sarebbe troppo pesante per potersi arrestare .
Per questa ragione, una volta che il ‘decision point’, ossia la metà della distanza tra Walvis Bay e l’isola, è stato oltrepassato, l’aereo non ha carburante a sufficienza per tornare a Walvis Bay e non ha altra alternativa che atterrare sull’isola. Se nel frattempo il vento si è alzato, i piloti non possono fare altro che provare comunque ad atterrare, e poi riprovare e riprovare a mettere le ruote sulla pista, sperando che il vento, magari anche solo per qualche minuto, cali tanto da permetterglielo.
In ultima istanza, se il carburante dovesse terminare, non ci sarebbe alternativa a un ammaraggio. E considerando che l’Oceano non è il fiume Hudson, è assai poco probabile che la manovra possa essere realizzata senza danni.
Poteva, The Flight Club, risparmiarsi e risparmiare ai suoi entusiasti elettori, una simile ‘avventura’? No. E, infatti, in una bellissima, ma un po’ ventosa, giornata di inizio dicembre, sono salito a bordo del ‘volo senza ritorno’ da Johannesburg all’isola di Napoleone, sperando di non essere il primo, nei sette anni in cui il volo è stato operato senza incidenti, a sperimentare un ammaraggio nell’Atlantico.
Dopo il check-in al Terminal B dell’OR Tambo International Airport di Johannesburg, quello dedicato ai voli domestic o regional, ho passato la security e l’immigration al terminal A, da dove partono i voli internazionali come quello verso Sant’Elena.
Quel giorno, il volo 4Z131 imbarcava dal gate A22, uno di quelli serviti dai bus interpista. Il boarding è iniziato in perfetto orario alle 9 del mattino. Passeggeri pochini, tanto da stare comodi in un solo bus. Quindi, procedura veloce e arrivo all’aereo sul piazzale in un paio di minuti. Poi salita dalla sola posta anteriore.
Tutto pronto, si va? No. Perché, in base all’effettivo numero di passeggeri a bordo e al soffiare dei venti, un ultimo eventuale rabbocco dei serbatoi viene effettuato appena prima del pushback, con il comandante a sovrintendere alle operazioni di rifornimento.
Pochi minuti e il bocchettone del cherosene è stato staccato dall’ala, le porte chiuse e l’ERJ spinto in dietro. Cinque minuti di taxi ed eravamo in volo poco prima delle 9.30. Durante il rullaggio, il comandante ci aveva briffato sul fatto che, dato lo scarso numero di passeggeri (a occhio una cinquantina sui 98 che può portare l’ERJ-190 di Airlink) e i venti favorevoli, forse lo scalo a Walvis Bay non si sarebbe reso necessario, prima di aggiungere che ci avrebbe comunque aggiornati più avanti.
Airlink è una vera compagnia ‘full service’, non come quelle che in giro per il mondo si spacciano per tali e poi ti fanno pagare cibo e bevande a bordo. Così, una mezz’ora dopo il decollo, le due hostess dedicate alla cabina di Economy (una terza era al servizio esclusivo di quella di Business Class, che sul -190 è su due file in configurazione 1-2 per 6 posti totali) sono passate con il carrello, offrendo acqua, soft drink, vino bianco, vino rosso e birra, oltre a una scelta tra sandwich con il pollo o con il manzo. Il panino era buono anche se un po’ gommoso ma vabbè, non eravamo a bordo per il catering.
Mezz’ora dopo, il comandante ha annunciato che visti i venti favorevoli, avremmo fatto rotta direttamente su Sant’Elena, senza scalo per il rifornimento. Nessun grido di giubilo a bordo, ma una bella ora e mezza risparmiata sul tempo totale di volo, che Airlink schedula in 6 ore e 25 minuti (rifornimento compreso). Un’altra mezz’ora dopo, le coste della Namibia passavano diecimila metri sotto di noi e l’Oceano Atlantico (e null’altro, tra noi e Sant’Elena) ci si spalancava davanti per le successive tre ore scarse di volo.
Il momento fatidico, quello del ‘punto di non ritorno’ lo abbiamo raggiunto intorno alle 12.30, ora di Johannesburg (Sant’Elena è due ore indietro e ha lo stesso fuso orario della Gran Bretagna). Dalla cabina nessun annuncio, né alcuna virata per tornare verso il continente. Da quel punto in poi, non avremmo potuto fare altro che atterrare, in un modo o nell’altro.
Nonostante il brivido in vista dell’atterraggio, la tratta oceanica è stata piuttosto noiosa. A bordo dei suoi aerei, tutti Embraer dall’ERJ-135 all’ERJ-195) Airlink non ha sistema di intrattenimento, né wifi. Per cui, per trascorrere il tempo si può guardare fuori dal finestrino (noioso, sopra l’Atlantico), leggere un libro o la rivista di bordo Skyway o guardare o ascoltare qualcosa che si sia scaricato sul proprio device prima del volo, facendo attenzione che in cabina non ci sono prese di corrente di alcun tipo e quindi è saggio, nel caso, dotarsi di un powerbank.
Un secondo pasto è comunque stato servito in quello che (se avessimo fatto lo scalo) sarebbe stato il secondo volo della giornata. La scelta era sempre tra pollo e manzo, ma non di sandwich si trattava questa volta. Scegliendo il manzo, in una variopinta box decorata con la foto di una delle varietà del Sunbird (l’uccello del sole, che è il logo della compagnia) mi sono trovato davanti a una porzione i pastrami accompagnata da una cosa che in Italia sarebbe fuorilegge: un’insalata di pasta condita con una salsa spessa e giallina in cui erano immersi alcuni pezzi di verdura, in pratica un’insalata russa con dentro la pasta (però la scatola era davvero carina).
Le cose si sono fatte più interessanti quando, una mezz’ora prima dell’atterraggio, dalla cabina di pilotaggio il comandante ha annunciato l’inizio della discesa verso lo ‘scoglio’ di Napoleone, dove avremmo trovato cielo nuvoloso e una temperatura di 20°C. Pochi minuti dopo, una delle assistenti di volo è passata lungo il corridoio ‘sparando’ in cabina il contenuto di una bomboletta di disinfettante spray, come sempre accade quando si vola dalla terra ferma verso isole remote (come appunto Sant’Elena) o in senso inverso.
Poco dopo le 2 (ora di Sant’Elena), mentre passavamo attraverso uno strato leggero di nuvole basse, ho intravisto l’isola sulla destra dell’aereo e m’è venuta la tentazione di urlare ‘Terra!’ come probabilmente fece qualcuno dell’equipaggio di Joao Da Nova Castella, l’esploratore portoghese che scoprì Sant’Elena il 21 maggio 1502.
L’approccio finale è stato abbastanza impressionante perché le scogliere vulcaniche dell’isola si avvicinavano sempre di più e scendendo continuavamo a vedere solo mare, niente terra e né pista. In più, gli ultimi 20 secondi di volo sono stati un bel po’ ballerini con le ali che ‘sbattevano’ a sinistra e a destra.
Poi, sotto di noi l’asfalto. Una bella toccata dura (un po’ ‘stile Ryanair’, ma in un posto così ci può anche stare), la frenata abbastanza brusca e il parcheggio davanti al terminal.
Fine, dopo quattro ore e mezza non-stop, di un volo non esattamente come tutti gli altri. E benvenuti sull’isola di Naponeone.